Il divertente e un po’ surreale
episodio che sto per raccontare accadde tanti anni fa, eppure mi viene sempre
da ridere quando ci ripenso in momenti come questo, in cui ci si appresta al
passaggio all’ora legale.
Ai tempi, i ritmi mattutini di
casa Mira erano scanditi e organizzati dalla sveglia di mio padre che era il
più mattiniero, poi, prima di uscire svegliava mia madre e io che andavo a
scuola mi preparavo per ultima. Cosa andò storto quel lunedì mattina nel
rodato meccanismo familiare non lo so esattamente, la sostanza fu che eravamo tutti
in ritardo di un’ora e nessuno se ne accorse. Per quanto mi riguarda, ricordo
che controllavo l’ora, o meglio il rassicurante scorrere della lancetta dei
minuti – e sottolineo dei minuti - sul quadrante dell’orologio appeso in cucina,
procedendo con l’abituale lentezza nei preparativi.
La sera a cena ci fu il resoconto
delle rispettive giornate: la meno divertente fu quella di mia mamma che arrivò
al lavoro con un’ora di ritardo, ma siccome era sola, nessuno le disse nulla,
uscì un’ora dopo e fine della storia.
Mio papà dopo aver timbrato il
biglietto dell’autobus andò a protestare con l’autista perché secondo lui la
macchinetta obliteratrice non segnava l’ora giusta. Il conducente controllò
l’orologio da polso e confermò che, in effetti, era indietro di due minuti. Due
minuti? Non un’ora? Piano piano si fece strada in lui l’idea di aver preso una
cantonata, la sensazione fu avvalorata dall’insolito affollamento di studenti e
diventò certezza quando la bollatrice dello stabilimento confermò che aveva un ritardo
da giustificare.
Ovviamente la mattinata più
demenziale fu la mia, e ovviamente feci di tutto per peggiorare la situazione
ostinandomi a non vedere i segni che avrebbero dovuto farmi evitare di
trasformare un errore in una figura di merda.