VIA DA GORMENGHAST di Mervyn Peake (traduzione Roberto Serrai)
Con questo libro si chiude una trilogia che mi ha catturata e affascinata, e continuo a ritenere il volume iniziale, Tito di Gormenghast, uno dei libri più belli che abbia mai letto. (ne avevo parlato qui )
Nel finale del secondo romanzo - intitolato semplicemente Gormenghast – Tito rimasto solo e senza affetti dopo aver lottato per difendere il proprio regno dal male e dall’usurpatore, partiva per cercare la propria strada lontano dall’opprimente Gormenghast. Sembrava quasi che la saga fosse conclusa, invece quest’ultimo sorprendente capitolo racconta le avventure vissute dal giovane protagonista lontano da casa.
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Lo stile di questo terzo libro è molto differente da quello dei precedenti: fu scritto da Peake durante la malattia e pubblicato postumo senza una sua definitiva elaborazione; ne pagano alcuni personaggi che a tratti risultano poco definiti o certe situazioni un po’ vaghe, ma nel complesso merita comunque.
IL SENSO
Tito ha lasciato Gormenghast perché soffocato dall’immobile rituale e dalla tradizione, perché voleva sfuggire a un destino già scritto ed essere l’autore delle proprie scelte; tuttavia lontano da casa si ritrova a vivere sempre come un fuggiasco ed essere ritenuto uno straniero indesiderato.
L’ambientazione non è pervasa di paesaggi onirici come nel primo libro, qui siamo di fronte alla rappresentazione di tutte le paure e di tutti i fantasmi del protagonista che nel suo percorso incontra disperazione, odio, paura, cattiveria, persone che sono solo solitudini che si sfiorano.
Inoltre, se i primi due romanzi sono ambientati in un non-tempo e non-luogo, qui invece è evidente che siamo nel ‘900, in quella modernità tecnologica e disumana che rende Gormenghast ancora più distante e immobile, così cristallizzata nel suo rituale. E’ per questo motivo che Tito è smarrito, confuso e ostile, incapace di fidarsi; quando è attanagliato dal dubbio, per non impazzire ha bisogno di stringere la scheggia di selce che gli ricorda in modo tangibile che la sua casa esiste. Più la strada è persa, più Tito desidera ritrovarla e nella ricerca di sé scopre di essere indissolubilmente legato alle proprie radici. E’ un duro percorso di maturazione per diventare uomo: abbandonare l’opprimente terra natia per sentirne poi la mancanza, dubitare di avere avuto un passato per scoprire che quel passato è invece sempre dentro di lui a dargli forza.
Ed è perché la sua casa esiste davvero che, nel finale, non ha bisogno di superare la montagna per vederla con gli occhi: l’ha ritrovata nel cuore.