Da bambini si fanno tanti giochi stupidi e a volte anche
pericolosi e io non facevo certo eccezione. Il peggio di me lo davo in estate,
quando andavo dai miei nonni che vivevano in campagna e questo per una bambina
cittadina forniva possibilità pressoché infinita di fare danni.
Quando avevo 7/8 anni capitò che fui lasciata
“incustodita” nelle vicinanze di un altrettanto incustodito vasetto di
ciliegine sotto spirito (o forse era la grappa casalinga di mio nonno?) e si sa
che una ciliegia tira l’altra… fatto sta che me ne feci fuori mezzo vasetto e
poi diedi di matto. Il primo ad accorgersi di me fu mio nonno che con la flemma
e il senso dell’umorismo che lo distinguevano andò dai miei genitori a dir loro
di “andare a riprendere la bambina perché stava inseguendo quella vecchia
(mia nonna) con un bastone”. Non ricordo bene, ma non credo che mi avessero
sgridata più di tanto… per cominciare la colpa era di chi aveva lasciato il
vasetto aperto, e poi mio nonno giustificava e difendeva sempre e comunque i
suoi nipoti.
E
a proposito, apro il capitolo dedicato ai cugini che vivevano lì in Romagna e
che vedevo solo in estate con i quali ne combinavamo di tutti i colori perché
in un certo senso avevamo un sacco di arretrato da recuperare.
In particolare non vedevo l’ora di incontrare un cugino – Il Re – che per me era una sorta di fratello maggiore, un mentore e un complice di giochi, insieme formavamo una specie di associazione a delinquere perché ci istigavamo a vicenda a combinare casini, bastava uno sguardo per capirci.
Una
delle nostre occupazioni preferite era accendere il fuoco nel camino che si
trovava nel capannone dei trattori adiacente alla stalla (quindi un po’ fuori
dallo sguardo dei nostri genitori) e fin qui niente di strano, visto che era
agosto. Un giorno, stanchi di abbrustolire patate e pannocchie, pensammo di
fare un esperimento: “chissà cosa succede se si mette una bomboletta di
spray vuota sotto la brace?”. Detto, fatto. Per fortuna la “cottura” era
stata lunga e noi stanchi di aspettare eravamo già andati altrove. Un botto
clamoroso ci richiamò ad assistere allo spettacolo dei pezzetti di latta
incandescenti sparsi per tutto il capannone… e meno male che non prese fuoco
nulla. Comunque dichiarammo l’esperimento perfettamente riuscito, anche se i
nostri genitori non ne furono soddisfatti quanto noi.
Il
suddetto capanno degli attrezzi forniva anche altri spunti di gioco, come ad
esempio le scope di saggina usate per la pulizia del porcile che, immerse in acqua,
diventavano ottime armi per simulare tornei medievali da combattere a colpi di
putridi schizzi, oppure se usate asciutte, servivano per percuotere l’albero di
prugne per farci cadere in testa quelle mature.
Il
gioco di nostra invenzione di cui andiamo ancora fieri è “Bocce con gli
Zoccoli” e visto che purtroppo non è diventato uno sport olimpico ve lo
illustro. Il campo da gioco era un’area rettangolare con il fondo in cemento
tra il retro della casa e il fatidico capannone. Ciò che ci diede l’ispirazione
fu che lo spiazzo era attraversato alle estremità da due tubature poste ad
un’altezza di circa 3 metri da terra: di solito giocavamo con il pallone a
superare quel divisorio ma era troppo facile e noioso, così studiammo una
divertente variante. Ai tempi andavano di moda gli zoccoli di legno (ma anche i
moderni Crocs andrebbero bene) e ci ingegnammo di prendere la ricorsa e far
partire lo zoccolo dal piede dandogli una forte spinta con traiettoria verso
l’alto, in modo da oltrepassare la “rete” e cadere sul campo di gioco. Vinceva
chi piazzava lo zoccolo più lontano, ma non oltre la “rete” al fondo perché
quello era fuori campo e non valeva.
Se
non lo trovate appassionante è perché non ci avete mai giocato!
Quando
abbiamo inventato questo gioco non eravamo più bambini, e in generale ci siamo
sempre divertiti a fare cose stupide anche da grandi, come ad esempio quella
volta che Il Re trovò in campagna delle piante di canapa, ma non la canapa
indiana della Maria Giovanna, bensì quella priva di contenuto stupefacente che
una volta si utilizzava per ottenere fibra tessile (i corredi delle nostre
mamme parlano chiaro). Senza stare a sottilizzare e senza preoccuparsi dello
stato di maturazione della pianta, la raccolse e fresca e verde com’era ce ne
facemmo una tisana… che ovviamente non produsse il minimo sballo. L’unico
effetto fu quello di fare inorridire e scandalizzare una mia amica che era
evidentemente molto più sprovveduta e bacchettona di noi (pensa un po’ come
poteva essere).
Gli
amici che frequentava mio cugino, invece! Con loro faceva delle cose per cui io
provavo una grande invidia quando me ne parlava, tipo inventare barzellette
demenziali, chiudersi in macchina d’estate con il riscaldamento acceso o far
rotolare le balle di fieno lungo la collina. Ero sempre molto contenta quando
potevo uscire con loro, un po’ perché erano ragazzi più grandi (e quando sei
adolescente questo è già sufficiente) ma soprattutto perché erano una banda di
pazzi e mi trattavano come una di loro. Una volta presi parte ad un “rally”
notturno nelle vigne con successivo lavaggio dell’auto al chiaro di luna nel
cortile di mia nonna… tutte cose che a Torino non si potevano certo fare.
Purtroppo
il tempo passa, si cresce (a volte si matura anche), un po’ si cambia, gli
amici prendono strade diverse (e io adesso sto prendendo la strada della
malinconia) e anche mio cugino lo vedo raramente… però c’è sempre quella vena
di follia che ci unisce.
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La seconda settimana di scuola
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